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Double Vision: Carolyn Carlson nel paese dell’immaginario

Sipario

[img_assist|nid=10495|title=|desc=|link=none|align=left|width=130|height=130]UDINE - L’ultima creazione della coreografa e danzatrice Carolyn Carlson, che in quarant’anni di carriera si è distinta internazionalmente per la sua straordinaria capacità inventiva, tanto da meritare nel 2006 il leone d’oro alla carriera della Biennale di Venezia, è un assolo.

Ma non è sola: la accompagnano gli Electronic Shadow, il giovane duo creativo francese formato dall’architetto Naziha Mestaoui e dallo scenografo-designer Yacine Aït Kaci.
Lo spettacolo inizia alle 20.45 precise, puntuale come il lavoro in fabbrica dove le macchine sono programmate per funzionare ininterrottamente fino a un tempo concordato. Il paragone potrebbe sembrare campato in aria, ma la performance di Carolyn Carlson, danzatrice raffinata e ipercreativa, ha qualcosa che richiama l’ossessione delle macchine, la loro cieca produttività e ripetitività di movimenti. L’impressione, per fortuna, è solo superficiale perché nello spettacolo proposto, della durata non superiore a 60 minuti, c’è molto di più. Cominciamo dal palcoscenico: un luogo trasformabile certo, ma sempre entro certi limiti di tempo e di spazio.
Ebbene, per Carolyn Carlson e per gli Electronic Shadow, è solo un contenitore che si presta a essere penetrato e disegnato dalle immagini in movimento. Sul palco un telo bianco fa anche da vestito alla danzatrice pettinata come una rockabilly sorpresa da un forte vento laterale. Sullo sfondo, obliquamente, una gigantesca superficie a specchio riflette le immagini proiettate e i movimenti. L’effetto moltiplica lo spazio scenico e in un certo senso lo reinterpreta perchè le immagini riflesse nello specchio hanno una morbidezza quasi liquida, forse data dalla natura dello schermo deformante. Proiettori nascosti alla vista riversano sul telo una valanga di immagini combinate, creando uno spazio virtuale dove si muove preciso e ritmico come una macchina il corpo di Carolyn Carlson. L’impatto visivo è da creazione del mondo.
[img_assist|nid=10497|title=|desc=|link=none|align=left|width=422|height=640]La danzatrice, tutt’uno con il telo tellurico, si muove al centro ora confondendosi ora staccandosi dalla scenografia virtuale e quasi si fonde nel contesto di luce, emergendo dal caos primordiale. Le immagini e i colori scorrono sulle superfici mutevoli e sulla sua veste in un crescendo ripetitivo. Formiche rosse proiettate diventano un fiume di sangue, poi improvvisamente un bianco che rischiara anche la prima galleria è lo sfondo di un grande occhio che la guarda e attraverso lo specchio ci guarda. Torna subito il rosso di un vulcano primordiale che pare eruttare grazie all’energia della coreografa. Ma il fuoco viene spento dal vento provocato dai ventilatori posizionati tra le quinte. L’aria gonfia il telo facendogli assumere svariate “forme” in un continuo mutare di soffi anche sonori.
Ciò che colpisce e ci rapisce non è solo il gioco straordinario delle immagini sincronizzato con le movenze della danzatrice ma il mix di elementi che concorrono a fare lo spettacolo: luci, scenografia, musica elettronica e sottofondo di rumori e suoni che vanno a creare un ritmo ossessivo e incalzante montato sulle immagini in una spirale di emozioni visive e auditive tale da far ammutolire il numerosissimo pubblico udinese. Non un colpo di tosse, non un sospiro, ma un silenzio corposo e quasi palpabile: un omaggio affettuoso dei friulani nei confronti della bravura di Carolyn Carlson e dei suoi boys dietro le quinte.
Dal soffitto scendono schermi bianchi allungati. Dalla creazione del mondo si passa con un fulmineo scarto temporale ad ambientazioni metropiltane contemporanee e quello che resta è solo un vapore fluttuante proiettato sullo schermo centrale. I cinque schermi non sono paralleli ma sfalzati in modo da permettere che Carolyn Carson in silhouette con una calza nera in testa entri ed esca da uno schermo all’altro. Sulla loro superficie un potente flusso di immagini comincia a rimbalzare: accelerazioni variamente progressive di traffico notturno in una megalopoli moderna vengono scoperte da una tendina dal basso verso l’alto. Sotto, un rosario di parole in inglese indicanti numeri e percentuali pronunciate da una voce metallica da speaker radiofonico. Carolyn Carson ci vuole calare nella realtà economica in cui viviamo, facendoci partecipi, ma già lo siamo, chi consciamente chi meno, dell’assurdità del nostro quotidiano. La figura danzante si muove ora davanti ad uno schermo ora davanti all’altro con gesti meccanici e anchilosati brandendo forme astratte di animali come nelle ombre cinesi. Dal colore si passa al bianco e nero. Lei davanti allo schermo è clonata sugli altri schermi ma in negativo. Se un momento prima la scenografia era una sorta di tappezzeria impazzita, ora il palcoscenico è tagliato a fette luminose su cui danzano ombre umane percorse e penetrate da linee e geometrie mutevoli. Sembra un magazine vivente di design. Non è un caso dato che gli Electronic Shadow spaziano dall’architettura alla domotica, dall’arte contemporanea alle installazioni. Infatti la scena successiva diventa una soggettiva di una carrozza della metropolitana mentre viaggia all’aperto in una città irta di grattacieli fermandosi nelle varie stazioni che incontra.
Davanti ad una fetta di luce si posiziona Carolyn Carson in silhouette, prima ferma, poi progressivamente in movimento sempre assieme alla sua ombra proiettata in modo tale da sembrare due persone che si muovono in sincrono. La musica[img_assist|nid=10496|title=|desc=|link=none|align=right|width=640|height=427] cambia tono ed anche l’immagine cambia registro: sempre la soggettiva di prima ma ripresa con un tempo di otturazione lento, tanto da sfilacciare il soggetto in tante scie luminose. Stridori di ferro arruginito, scritte scorrevoli al neon, immagini metropolitane attraversate da serpentine luminose che sembrano spermatozoi, colonna sonora ossessiva dove pare di sentire un urlo di una donna che viene da lontano…poi il buio e il silenzio. Fiat lux…e riappare la Carlson, inizia un nuovo tableau vivant. Tutto lo spettacolo è così e non c’è tregua per l’occhio. Forse bisognerebbe rivederlo due volte perché molte cose ti sfuggono, ma la suggestione rimane.
La double vision, la doppia visione della realtà diventa, come è stato detto, un poema visivo e sonoro sulla relatività del nostro sentire, una visione al di là della vista. Eppure c’è ancora di più. Ad un certo punto Carolyn Carlson gira su se stessa come un derviscio. Si direbbe armonia e spiritualità insieme, ma la base su cui si muove e da cui un derviscio tenderebbe a lievitarsi è coreografata con la luce: cerchi concentrici e scaglie luminose si muovono con lei, un magma da cui è impossibile staccarsi. Siamo nel nostro mondo di materialità e dobbiamo conviverci. The world I see, the world I make, the world I imagine: tre momenti di una visione ma anche una riflessione filosofica su ciò che siamo in relazione al mondo con cui ci relazioniamo ogni giorno. Una delle tante scritte proferisce uesto non è quello che sembra”.
Qui la danza interpreta il mondo. Ciò che mi circonda esiste perché muovo il mio corpo e le mie passioni. Lo spettatore non ha nemmeno il tempo di essere deluso. Troppi gli stimoli visivi ed auditivi per rimanere indifferente. La scena cattura lo sguardo totalmente, non lascia vie di fuga. L’occhio, come poche volte accade nella vita piattamente realistica dell’oggi contemporaneo, si nutre di linfa vitale davanti al tripudio di colori, linee e forme disegnate o filmate che danzano insieme a Carolyn Carlson.
La californiana danza sola, ma non potrebbe essere altrimenti perché lo spazio disegnato dalla luce danza intorno a lei e per lei. Se non ci fosse, se l’occhio dello spettatore non fosse puntato sulle sue movenze meditate, il turbinio di immagini che le stanno attorno sembrerebbero un fuoco d’artificio, bello ma senza anima. C’era grande attesa l’ultimo giorno di ottobre al Teatro Giovanni da Udine per Carolyn Carson e tutte le aspettative sono ritornate al pubblico come un tornado visionario, lasciando sbigottiti anche i più increduli, quelli che vedono in questo tipo di spettacoli solo un rimpasto delle performance degli anni Settanta.