[img_assist|nid=5890|title=|desc=|link=none|align=left|width=130|height=130]PORDENONE – Con una memorabile standing ovation finale, l’entusiasta pubblico del Verdi di Pordenone ha salutato l’esibizione della Compagnia della Fortezza ne I pescecani, ovvero quel che resta di Bertold Brecht, ultimo appuntamento per la sezione Interazioni 2007.
Il pubblico è accolto in sala in un’atmosfera surreale, dove il rosso delle luci è il colore predominante che si riflette sugli strani individui, omini sghembi e caricaturali, che popolano la scena, sostenendo enormi cartelli vergati a mano su cui è possibile leggere il loro disappunto per la temperatura del giorno: trentotto gradi di afa irrespirabile nel pomeriggio infuocato al carcere di Volterra. Di lì a poco la denuncia della condizione carceraria si fa ancora più esplicita. E non solo. La metafora dei “pescecani”, sanguinari divoratori, rappresenta sul palcoscenico la sete di denaro e di potere, l’ingiustizia, l’arroganza dell’intera società, rappresentata come una bolgia carnevalesca di trafficanti, furfanti, miserabili, delimitata sul proscenio da militari in atteggiamenti poco ortodossi con travestiti agghindati da lustrini e lamè; l’uso di cartelloni, di proiezioni e di song era il tratto distintivo del teatro epico che amava glossare, smontare e interrompere, davanti agli occhi del pubblico, il ritmo drammatico della narrazione. Con un omaggio esplicito alla drammaturgia dello smascheramento, ha dunque inizio il coloratissimo cabaret chantant dei detenuti – attori della Compagnia della Fortezza, che, sotto la guida del regista Armando Punzo, si appresta a festeggiare i quindici anni di attività teatrale.
Si celebra l’attualità di Bertolt Brecht e della sua famosa[img_assist|nid=5891|title=|desc=|link=none|align=right|width=425|height=640] antiopera – Die Dreigroschenoper – dramma buffo di un mondo votato alla perdizione in cui ladri e sfruttatori sono vittime dello stesso sistema e dove si dimostra il fondamentale assunto politico secondo cui i metodi della malavita e quelli dei gentiluomini si equivalgono.
Prende vita uno strepitoso can can percorso da toni e atmosfere espressionistiche stile Weimar anni Venti con il Nazismo in irresistibile ascesa. A un certo punto fa la sua comparsa anche Polly, avvolta nell’abito nuziale (l’ennesimo attore detenuto travestito). Agghindati come moderni gangster in doppiopetto scuro, gli attori si abbandonano a lascivi toccamenti o si accatastano in coiti simulati con la novella sposina senza però prendersi troppo sul serio. Non mancano neppure due esponenti del clero: baconiani cardinali rosso porpora. E poi ancora prostitute, furfanti, miserabili di ogni tipo, ognuno a far mostra di qualche abilità, ognuno prigioniero di un universo sempre uguale in cui violenza e sopraffazione rappresentano il linguaggio condiviso. Una violenza, va detto, che si afferma e ha la meglio se legalizzata e istituzionale.
E’ un’umanità da operetta quella che sfila davanti agli spettatori, un autentico taubleau vivant dove gli attori creano confusione nella percezione degli spettatori. Abiti rovesciati o indossato solo in parte, giacche e cravatte su torsi nudi, forti trucchi, desideri sessuali, risate che rimbalzano da una parte all’altra dello spazio teatrale. E poi c’è la musica, tantissima musica, a far da collante tra i diversi elementi, ad alimentare l’aspettativa di una chiusa dissacrante e provocatoria contro buonismi e false ideologie.
Registrata come base per improbabili assoli, sparata a palla per forsennate tecno-dance, sussurrata o, addirittura, eseguita dal vivo, dalla Banda larga di Udine e da un complessino rock, la musica accompagna l’intero evento teatrale stemperando di gioia e risate l’asfittico bunker della Fortezza. E’ così che nel finale gli spettatori si uniscono al festante corteo di attori detenuti, cantando e ballando al ritmo di Caparezza che, significativamente, scandisce un liberatorio Sono fuori dal tunnel.