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Mercoledì 26 marzo a Cinemazero unico incontro in Regione con il grande maestro Vittorio De Seta

PORDENONE - Nella storia del cinema italiano quello di Vittorio De Seta, autore schivo e controcorrente, è un caso emblematico di “rimozione”.
I suoi film, troppo spesso dimenticati, misconosciuti o fraintesi, vanno oggi restituiti ad una nuova e più matura visibilità grazie anche a Martin Scorsese che in ben due occasioni: al Full Frame Festival (il più noto festival di documentari negli Usa) e al Tribeca Film Festival, fondato da Robert De Niro, a New York, ha dedicato a Vittorio De Seta un corposo omaggio. Un grande momento di riconoscimento internazionale per uno dei maestri del documentario contemporaneo italiano. È anche grazie all’impegno e alla passione di Martin Scorsese se questo straordinario regista sta vivendo una sorta di ‘seconda giovinezza’ culminata con Lettere dal Sahara, realizzato dopo una pausa lavorativa di oltre dieci anni e rimasto bloccato a lungo per contrasti con la produzione. E per presentare appunto Lettere dal Sahara che mercoledì 26 marzo alle 21.00 Vittorio De Seta sarà ospite a Pordenone di Cinemazero.
Lettere dal Sahara è film di fiction, che racconta con stile documentaristico e profondo senso del paesaggio la storia di un senegalese in cerca di fortuna in Italia che, dopo una serie di disavventure, decide di tornare in patria e raccontare la sua esperienza.
Un giovane studente senegalese dopo la morte del padre emigra in Italia. Riesce a trovare un lavoro precario a Villa Literno e si trasferisce a Firenze da una cugina che fa l'indossatrice per poi giungere a Torino. Qui, grazie anche a un'insegnante di italiano, trova una situazione stabile. Ma un'aggressione razzista lo spinge a riconsiderare tutto.
Vittorio De Seta è stato uno dei registi più appartati e, al contempo, più 'necessari' al cinema e alla televisione italiani. De Seta, a 82 anni, ci presenta un film che ha avuto una lunga fase di gestazione e che ora arriva al pubblico. La storia del senegalese Assane si rifà indubbiamente a situazioni reali che subiscono nel nostro Paese discriminazioni inaccettabili. Non è il primo film italiano sugli immigrati Lettere dal Sahara: però è il primo raccontato dal punto di vista degli immigrati stessi con un linguaggio che non è ne documentario né fiction, ma l'una e l'altra cosa, paragonabile solo a certi film (Moi, un noir) del leggendario Jean Rouch. «Il film è stato girato in modo estemporaneo, improvvisato» ha detto il regista, soffermandosi sulle situazioni in cui ha deciso di "andare a braccio". Il risultato è un senso di eccezionale autenticità, tanto che pare di vivere le situazioni in presa diretta, saltando la mediazione della cinepresa; meglio, della telecamera, perché Lettere dal Sahara è girato in digitale. Citando Majakovskij, De Seta dichiara di credere in una "funzione" sociale del cinema e della televisione. E lo dimostra. Al punto che il suo film appare a tratti - nobilmente - didascalico, sposando il realismo delle immagini con la passione della declamazione civile.
De Seta è un maestro del documentario, e quando Assane torna in Senegal nel suo villaggio, ci sono circa 40 minuti di spettacolo puro, di muta contemplazione ad occhi aperti, dove il regista esplora alcuni sfondi urbani ed extraurbani del Senegal e la macchina da presa fluttua agile, libera, intransigente verso quel monologo finale spiattellato in faccia al viziato spettatore occidentale. Umile lezione di convivenza pacifica tra realtà, religioni e culture diverse e di cinema dal forte impatto civile. Tutto asciutto, autentico, svolto con una progressione drammatica che non sembra dover mai nulla alla finzione. Come, anche in passato, accadeva sempre nel cinema di De Seta, teso a raggiungere, ad ogni svolta, gli equilibri più attenti fra il documento e la cronaca. Con una forza civile che sa diventare cinema. Dopo 20 anni di silenzio (non voluto, anzi obbligato dall'imbarbarimento grave, nel nostro paese, della politica dell'immaginario) questa sorta di Paisà nero dal titolo Lettere dal Sahara, atteso ritorno alla regia di De Seta conferma le qualità di questo documentarista del reale, dall'occhio acuminato e dal cuore apolide.