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Nel nome del Padre, Come Dio comanda

ConSequenze

[img_assist|nid=16888|title=|desc=|link=none|align=left|width=130|height=130]Nella grigia e piovosa provincia meccanica friulana (quella delle ciminiere che fumano, delle industrie e del cemento che “violentano” la natura) si consuma, come sempre doloroso, un amore. Rino e Cristiano Zena sono padre e figlio, e vivono ai margini della società, in una casa che sembra abbandonata, in una cittadina che sembra indifferente al pari dei suoi abitanti.

Rino odia, disprezza il mondo, e non ha nessuno che possa contraddirlo nella sua atroce xenofobia: né il figlio, adolescente che assorbe i dettami del padre-padrone come la legge indiscutibile di un dio; né l’amico Quattro Formaggi, giovane debosciato rimasto menomato sul lavoro, incapace di sviluppare una propria coscienza morale che non sia quella del gioco (l’eterno presepe steso a casa sua) o quella della morbosità (il film porno mandato in loop nella sua televisione).

Entriamo in questo feroce microcosmo in medias res, senza conoscere cioè la storia precedente del trio, dando per buono l’incidente che ha rovinato la vita di Quattro Formaggi ma soprattutto accettando il fatto che manchi una madre e un contesto sociale per capire chi o cosa ha reso tale Rino, violento e alcolizzato, fervente nazista e rancoroso nei confronti “dei negri e degli slavi” che gli rubano il lavoro in cantiere.

Gabriele Salvatores, adattando l’omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti, “ingabbia” i suoi personaggi in caratteri monolitici e immutabili, ostacolando l’immedesimazione e il coinvolgimento emotivo. Rino, Cristiano e Quattro Formaggi (ma anche l’assistente sociale Fabio De Luigi e la civettuola protagonista femminile) non prevedono un’evoluzione, estremizzati e semplificati come sono da una sceneggiatura (cui comunque ha collaborato lo stesso Ammaniti) che sforbicia e impoverisce fin troppo la complessità del romanzo e dei suoi molteplici snodi. Nel film tutto ruota attorno al turning point di metà narrazione, al colpo di scena nel quale tutto cambierà affinché tutto, infine, rimanga uguale. La scena nel bosco, il risvolto thriller che ridà un po’ di ritmo dopo la prima ostica mezz’ora, dura quasi 35 minuti, e non stanca mai. E’ a questo punto che Come dio comanda mostra i suoi pregi migliori, dall’abilità tecnica e virtuosistica del regista (mai messa in discussione, e anzi fiore all’occhiello delle sue opere) all’intensità degli attori: Filippo Timi, che incarna un Rino teatrale, dallo sguardo inquieto e sempre pronto al gesto folle; Elio Germano, l’unico italiano della “nuova generazione” che pare sappia recitare (ma d’altro canto se i nomi con cui confrontarsi sono quelli di Scamarcio e Vaporidis l’impresa non è così impossibile); il giovane Alvaro Caleca, che dà il meglio proprio dal momento della tragedia.

Resta da capire se possano bastare le qualità “di[img_assist|nid=16890|title=|desc=|link=none|align=right|width=457|height=640] contorno”, quando a mancare sono la tensione e la vitalità della narrazione: assistiamo alla vicenda come se tutto fosse già successo, come ad un evento di cronaca risaputo e ricostruito per l’occasione; e di conseguenza tutto lo svolgimento ci sembra prevedibile o facilmente intuibile. Nonostante la rabbia animale, l’energia distruttiva palpabile di cui riesce ad essere dotato questo tipo di cinema, nonostante la scena finale riveli forse l’unico vero intento di Salvatores, che subordina e dimentica il resto. Perché Come dio comanda è prima di tutto un film d’amore, la storia di un amore totale e incondizionato insegnato attraverso l’odio.