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Paolo Conte, inimitabile concerto a Villa Manin

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[img_assist|nid=8938|title=|desc=|link=none|align=left|width=130|height=130]Codroipo (UD) Lo spazio armoniosamente disegnato dalle barchesse di Villa Manin che abbracciano il palco è ormai colmo di spettatori. Le stelle sono pallide, la luna, quasi piena, è un lontano testimone… lassù. Un 24 agosto un po’ umido, c’è bisogno di un maglioncino. Qualche leggera brezza muove soavemente i bei vestitini estivi di un pubblico borghese attento e dallo sguardo intelligente. La lontananza eccessiva dal palcoscenico mi spinge a fare delle considerazioni.
Ma chi è Paolo Conte? E’ un cantautore della vecchia guardia, uno dei pochi ancora in piena attività, una star internazionale che il mondo ci invidia. D’accordo! Ma davanti a noi appare un distinto signore in giacca e sciarpetta (sempre l’umidità del Friuli!) con un classico completo grigio fumé e un’aria burbera e sorniona; un avvocato di 70 anni che si concede delle trasgressioni davanti ad un microfono. Al bando gli autografi, rare le interviste, mai apparso a Porta a Porta, nessun litigio con Sgarbi, girotondi, esternazioni, scandali: niente di tutto ciò!
Per il carrozzone mediatico che blinda l’attenzione dell’italiano medio, Paolo Conte non esiste. E’ un alieno, inavvicinabile e intoccabile. Appare e scompare a Villa Manin senza lasciar traccia. Ancora una volta devo accontentarmi di un lontano ricordo infantile: vent’anni fa (avevo due anni), mentre scorazzavo sul set di un video in cui lavorava mio padre, Paolo Conte interruppe la sua performance, mi prese in braccio e mi fece un gran sorriso. Sto ancora sognando ad occhi aperti seduta laggiù, quando i suoi musicisti sono già entrati e si sono sistemati ai loro strumenti.
Solo dopo, l’attento cantautore si presenta sul palco, accennando un breve inchino. Le luci puntano su di lui e la magia inizia con Sparring Partner, cioè colui che allena il pugile prendendo una serie impressionante di colpi e che non emerge mai dall’anonimato (eppure è tanta parte nel successo[img_assist|nid=8939|title=|desc=|link=none|align=right|width=640|height=533] di un pugile). E’ il primo pezzo che intona, forse perché dietro all’istruttore di boxe, protagonista della canzone, nasconde se stesso a cui certi applausi ormai/son dovuti per amore. Si asciuga il sudore, ringraziando con la testa al primo dei tanti applausi. E’ il momento di un’altra canzone del vecchio repertorio, Come-di che è come dire comédie. E’ un gioco di assonanze tra l’italiano e il francese e di libere associazioni metaforiche. L’autore gioca sul fraintendimento dei termini e il testo non è più importante per il suo senso letterale, ma per i suoi suoni, per l’atmosfera da tempi andati a cui nostalgicamente ci riporta. Una metafora sulla comédie humaine, dove è mischiata la città partenopea alle orchestre jazz di Minneapolis, alla Francia…con un ritmo andante che sa di luce piena di vertigine / sguardo di donna che ti fulmina. La musica scanzonata plasma l’atmosfera. Quando entrano i 3 fiati, la luce è su di loro, come in una coreografia da Fred Buscaglione. Canzone dopo canzone, il Maestro presenta i suoi musicisti, sempre perfetti quasi come un orologio svizzero negli attacchi e nelle entrate. Finalmente un pezzo tratto da Elegia, l’ultimo album dove Paolo Conte racconta in modo nostalgico (come da titolo) e quasi trasognato ciò che prova oggi, nel presente. Ne La casa cinese ci sono i dubbi del buio che non aiuta, ma ci perdona se mai
A passo lento di swing si passa poi alla sua dichiarazione d’amore per la musica jazz. Paolo Conte ci porta sotto le stelle di un grande sogno, di una bellezza agognata, forse ancora rimasta in fondo al cuore come l’ultima preda più ambita di un musicista… il jazz con i suoi duemila enigmi! Sotto le stelle del jazz ricorda i primi anni di quella passione, quando come una sorta di carbonari, i primi “ragazzi-scimma del jazz” andavano alla ricerca dei rari dischi e spesso non erano compresi, soprattutto dalle donne. Ma anche le successive sono dichiarazioni d’amore, una per la milonga e l’altra per la musica nera, il Boogie, quel ritmo frenetico che i musicisti blues misero a punto originariamente nei bordelli della Lousiana e che trovò, più tardi, maggiore dignità nei fumosi locali di Chicago. La canzone è ambientata in un non ben precisato dancing americano tra gli anni Venti e Trenta, l’epoca che piace al maestro-sceneggiatore, dove la musica penetra il corpo dei ballerini che stanno danzando. Lei mandava vampate africane/lui sembrava un coccodrillo. Sembra che Conte usi anche l’olfatto quando dice che da lei saliva afrore di coloniali…
La capacità descrittiva ancora una volta va al di là del semplice racconto, è un susseguirsi di emozioni non più distinguibile dalla musica che richiama un boogie coinvolgente. La canzone è stata definita un copione di un film. Il boogie diventa la metafora per andare a passo con la vita, il ritmo giusto su cui sincronizzare l’esistenza. La musica trasuda sensualità. Nel boogie c’è un vitalismo primitivo africano, una lucidità di corpi, un rito sociale, una trasformazione, un passaggio e in definitiva una gioia naturale. Qui, come in altre canzoni, c’è, tra i tanti, un personaggio che ha il ruolo di osservatore e che esitò prima di sternutire/poi si rifugiò nel nulla (E’ forse Poalo Conte?). Segue Parole d’amore scritte a macchina. Basta solo il pianoforte per accompagnare la canzone che dà il titolo all’album registato nel 1990, a sottolineare in modo intimista e grave la tristezza di un amore finito, su cui Conte ironizza, perché non è altro che un documento legale di separazione. Le successive Genova per noi e Via con me sono sempre dal pubblico amate e non ci si stanca mai di ascoltarle. In piedi canta Molto lontano, tratta dal suo ultimo album e sinceramente ci dice sottolineandolo col gesto delle mani che vuole arrendersi in braccio a una musica/che chiude il discorso delle affinità/forte petomane/scritta dal diavolo/in spregio evidente della civiltà.
Dopo l’intervallo riparte con Bartali, il ciclista che vinse il Tour de France del ’48 e che in quegli anni ebbe un tale seguito di pubblico che si dice, forse non del tutto a torto, che con la conquista della maglia gialla subito dopo l’attentato a Togliatti, abbia evitato la guerra civile del nostro paese. E il protagonista della canzone che sta seduto in cima a un paracarro è disturbato dalla petulanza della fidanzata che, alle strade polverose, preferirebbe il conforto di un bel film. Conte la fa più lenta del solito, non pesta sul suo piano, ma la canta quasi ricordandosela come da lontano… Zazzarazazzz… Ma sull’epica del ciclismo canterà più in là anche Diavolo Rosso, che prende spunto da Giovanni Gerbi, ciclista cafone e rude di inizio secolo, soprannominato diavolo rosso perché si vestiva tutto di rosso e rossa era la sua bici. Secondo le male lingue, il campione qualche volta approffittava del treno come scorciatoia per il traguardo o si fermava al bar per rinfrescarsi. Ma questa è anche la canzone in cui Paolo Conte racconta del paesaggio astigiano, la sua terra. Il ritmo incalza con chitarre estenuate. Si procede per accumulo. Le immagini sono fotografie sgualcite d’altri tempi, struggenti e memorabili, con la morte che sembra non perdonare nemmeno la miseria dei contadini.
Riprende poi Elegia con il pezzo Sonno Elefante e Il regno del tango, quest’ultimo una surreale storia che pare sembra essere disegnata da Bozzetto. Trattato in malo modo dalla padrona di un cinema, uno scalcagnato tanguero encantador le aizza contro il bandoneon. Bandoneon, vecchio leon/ mordila.... Una dopo l’altra, dal palco arrivano le note di Jimmy Ballando, dell’indimenticabile Max, di Gioco d’azzardo, Eden, e Lo zio, un omaggio alla mitologia cinematografica. Probablimente il Conte giovanissimo se ne andò con lo zio al cinema a vedere Sciuscià di De Sica, lo stesso zio che lo portava ai primi concerti jazz. E qui che Conte ripercorre in musica quei forti sentimenti di amore per il jazz, di scoperta nel dopoguerra dopo la censura fascista.
Chiude con La vecchia giacca nuova, ultima traccia di Elegia, un divertissement swingante sull'essere e l'apparire, venata forse di scherzoso autobiografismo. Paolo Conte concede benevolmente il bis con Via con me. Il pubblico che lo poteva vedere solo con il binocolo si alza e si riversa attorno al palco. Eccolo finalmente, con la sua faccia da contadino astigiano cotto al sole. Sfiora con la bocca storta e i peli della barba un microfono enorme che sembra di famiglia. Il pubblico è frastornato ed ebbro di due ore di musica. Sull’onda di note evocative ha condiviso con lui un’intera vita di impressioni e sensazioni. La soddisfazione dei cinquantenni si mescola all’incredulità dei giovani.
Paolo Conte ringrazia e si dilegua. Villa Manin sembra un guscio vuoto. I sessanta euro delle prime file sono eccessivi? Per il momento non ci penso. Domani è un altro giorno.